sabato 6 settembre 2008

Retournons! Ovvero quando l'assimilazione del non-identico è una moda


Non smetterà mai di sorprendermi la voglia di esotismo che ci ha preso negli ultimi anni, le forme raggiunte sono le più disparate e si riscopre ciò che non è mai stato. Pare che con il radicalizzarsi del mutamento in senso globalista del mondo contemporaneo si stia radicalizzando la voglia che le singole comunità, locali e provinciali soprattutto, hanno di riscoprire le proprie radici. Ma le radici che si vogliono riconquistare sono irrimediabilmente perdute e ci si avvicina ad esse con la stessa ingordigia della vope all'uva ma non disprezzandone l'odore, senza cedere all'impossibilità di coglierle. Ci si accontenta del profumo, dell'aroma esotico, senza poterne esperire nulla di più. Il riavvicinarsi alle proprie radici, soprattutto nel meridione d'italia, ha qualcosa di patetico e di insopportabile; soffre della logica iperialista che si introietta nelle ore lavorative e si ripropone una catarsi umorale con il riavvicinarsi alle antiche esperienze. Il roussoviano "retournons", il sentimento di unione mistica ad una comunità più autenticamente umana e pre-moderna, ci è precluso e siamo noi ad averlo voluto.
 
A Bari si riaprirà la cantina di "cianna cienne", dove si potranno riassaporare gli "antichi sapori" (questo temine dovrebbe provocare ribrezzo a chiunque abbia un minimo di buonsenso), pasti frugali ma dai sapori veraci conservati come per magia di secolo in secolo. E dove prima bastavano poche lire ad un marinaio, ad un commerciante, ad un pescatore, per godere di un po' di riposo adesso è possibile sborsare decine di euro per godere dello stesso riposo ma senza la fatica che ne costituiva, allora come ora, la condizione principale per un vero godimento. Ciò che fino a qualche decennio fa era una scena normale, e che la modernità ha cancellato come gretta prassi di un mondo atavico, adesso viene riportata in auge con le logiche del moderno sotto forma di merce, con la potenza di fuoco del danaro, per il solo fine di ricavare pingui ricavi dallo sfruttamente dell'orrore di se stesso l'uomo moderno nutre.
 
Scene di quotidiano "retournons" sono dappertutto, ad ogni latitudine, in ogni modalità. Lo scopo è sempre e comunque l'attrattiva turistica dell'esotico. La Taranta salentina ne è l'esempio forse meglio riuscito. Dimenticata per anni, resa aliena agli stessi salentini dalle migrazioni di intere generazioni in cerca di lavoro e futuri rosei, la Taranta si è riscoperta nel sangue dei salentini, che hanno riscoperto di essere salentini come mai lo sono stati prima. A Roma mi capita spesso di riconoscere un salentino: "salentu!" (e affini)campeggia sulle magliette come rivendicazione identitaria o piùsemplicemente come trend.
 
La moda serve a dare segnali di diversità in un mondo in cui il deverso, il non-identico, non ha più alcuno spazio. Il riscoprirsi, lo scoprire nuove realtà-tribali, la sete di novità, di diversità, non sono che frutto della stessa logica che tutto assimila. Nel momento in cui ci si apre al diverso lo si assimila. Si riscopre ciò  era facendo leva su ciò che si è in un momento in cui è ancora possibile rammemorare.
 
Ma finiranno le mode, la moda non aspetta e per essere una moda deve avere un suo decorso e una sua fine.

venerdì 5 settembre 2008

Campioni del Mondo! Ovvero, tiratemi fuori da questo cazzo di paese.

Non pensavo che parlare della mia indifferenza alle vicende della nazionale italiana potesse suscitare tanto scalpore e peninsulare sbigottimento. Ma, focosi tifosi, spiegatemi: perché dovrei tifare l’Italia? Datemi una buona ragione almeno! Una che riesca andare al di là delle consuetudini geografiche, anagrafiche, ageografiche e linguistiche. Io provo a darvi le mie, tenendo ovviamente ben presenti quelle.

Italia. Iniziamo dall’ovvio. Un paese che ogni qual volta ha provato sentimenti nazionali lo ho fatto per convenienza e necessità di omologazione con malcelato obiettivo di evitare di incappare in spiacevoli inconvenienti. Che non ha mai saputo scindere il sano  legame alla propria terra dal senso di purezza  [tri]cromatica e avversione al diverso. Vivo con un siciliano che pensa che gli inglesi siano zingari perché hanno le lentigini e i capelli rossi, che a est dell’italia vive gente dedita al reciproco latrocinio, che gli insulari sono puri e i peninsulari semipuri, o quasi, perchè dalla Puglia in bicicletta si può arrivare uin Croazia e che quindi i pugliesi sono slavi. Come lui molti, più o meno. Preoccupante è che molti sono “più”. In metro. In università. Inclinazioni nazional-popolari per nulla gramsciane. Inclinazioni che non ci togliamo, che nutriamo dentro malcelandolo ma che siamo pronti a tirare fuori quando è d’uopo. Ora, si sa, è d’uopo.

Perché dovrei affiancare il mio tifo a quanti dimostrano avversione esplicita al nostro paese quando non si tratta di tifare 11 ragionieri in mutande che si rincorrono un campo di calcio[Bene]? A quelli che tifano Italia ogni torneo quadriennale, o quando corre in moto, o in auto, o sopra o sotto?  Perché dovrei affiancare il mio tifo a quelli che al di là dell’occasione “azzurra” sputano in faccia al nostro paese svendendolo, alle nostre istituzioni deridendole, alla nostre energie mortificandole, costringendole all’esilio, dentro e fuori i luoghi della produzione e del potere? A quelli che riversano i liquami nel mare delle nostre acque, che lasciano i rifiuti imputridirsi per le strade,  a quelli che truccano i concorsi non rendendosi conto che abbiamo le persone meno indicate in ogni posizione che richiede capacità riconosciute, a quelli che annichiliscono ciò che di buono possiamo fare parandosi dietro il “così fan tutti”? Gradualmente, lentamente, come cancri a pallettoni, clauster-cancer. Perché dovrei tifare una nazionale con chi e per conto di chi distrugge la nazione che rappresenta?  E non venitemi a raccontare di dover distinguere i ragazzi che scendono in campo dal resto. Cazzate. Io non me la prendo con loro, non mi interessano loro.  È l’ipocrisia che è dietro che contesto, che mi fa ribrezzo.  Non tutti i tifosi italiani sono così? E vero, ma non mi interessa nemmeno la maggioranza. A  me basta sapere che è quella che vota, che è quella delle clientele, che aspetta le briciole del pranzo di chi può concedersi lauti pasti e che tira a campare non auspicando neppure la fine della nottata [E.De Filippo].

Non ho tifato Italia perché spero che questa volta manchi alla fine l’assoluzione ridente, a vittoria ottenuta. Malgradi tutto siamo italiani. I campioni del mondo! Come ci è piaciuto dirlo nel 2006. A me per niente, e lo rivendico. Io non mi sono mai sentito un campione del mondo e neppure un italiano.  Cosa ci è rimasto del 2006? Un cazzo, salvo un odio nemmeno troppo velato per i francesi, che spero domani ci facciano il culo [il –ci è dovuto al fatto che dopodomani le maggiori testate giornalistiche francesi includeranno anche me nel loro “les italiennes” , un –ci che mi piomba in situazione] e che ad oggi ci ha causato, a ben considerare, la oramai prossima dissoluzione della nostra compagnia aerea di bandiera (quanti italiani dichiaravano di non potere sopportare che al verde si sostituisse il blu, richiamando un altro tricolore, il più opdiato. E quanti e quali politici ci hanno marciato!). Ah! L’Alitalia! Ah! La vendetta dei "mangiarane"!

Non ho tifato Italia, ora come nel 2006 e forse davvero l'Italia non l'ho tifata mai (anche da piccolo avevo una certa proprnsione per la Germania e la Jugoslavia, forse per la divisa o per la difficolltà di pronucia dei loro nomi, infantile fascino esotico) perché sono radicalmente incoerente. Amo il mio paese. Mi piace l’Italia, forse un po’ meno del bel calcio. Non tifo L’Italia perché nella mia incoerenza ci si possa intravedere un barlume di coerenza. Durante lo scontro con la Romania io inneggiavo fanaticamente alla vendetta dei Vlad, scherzando con me stesso [quando nessuno può sentirti è il momento di lasciare che i resppiri siano più profondi!]. Speravo si potesse manifestare in un sorriso sdentato zingaro, esteuropeo. Volevo che si realizzasse il proposito orgoglioso dei fratelli Becali.

La caccia al rumeno:  stupidità italiana all’ennesima potenza. Quelli rubano! Le leggi! Comandano a casa nostra! - Che fessi gli italiani! Non riuscirebbero a vedere al di là dei loro confini nazionali neppure se si traforassero migliaia di chilometri di Alpi o si lanciassero ponti su tutte le spiagge del mediterraneo.  Infrastrutture ad effetto dopante. Infrastrutture-inframuscolo. Però, senza minimo orrore di se stessi: campioni del mondo!      

Mettetevi un joipad in culo e la vita vi sorriderà!


Il gioco fatto attraverso un videogame è quanto di peggio possa esistere.
In realtà non è neppure un gioco ma un intrattenimento a 360° di tutte le facoltà intellettive inferiori e un anestetico per quelle superiori (tuttavia lo si chiamerà ancora gioco di qui in avanti). E questo non solo per il tempo che si impiega ne gioco stesso ma anche per molto di quello seguente e per alcuni casi, soprattutto per i più sfortunati perchè assuefatti, anche per quello precedente in quanto fase preparatria al gioco stesso.  Giocando alla PlayStation si entra in un altro mondo, un mondo di evasione, si è totalmente catturati dalla capacità di traslare il proprio corpo, i propri movimenti in quel mondo. Un mondo fatto di regole precise e di possibilità di vittoria determinate dal seguirle pedissequamente (un esempio calzante è, nei giochi di calcio,  la possibilità di segnare facendo precisi percorsi, o passaggi, o movimenti a smarcare etc...). Cosa che lo distanzia enormente da quello che accade in realtà: ecco che si è dei grandi giocatori!
Anche una sola partita è deleteria. Ogni minuto dedicato a quei giochi è un minuto in meno di vita vissuta.
Non si bada a niente quando si gioca. Tutto ci disturba, tutto ci distoglie da esso. Il fumatore non fuma, l'amante non ama, l'affamato non mangia, il tempo non scorre fino a che non si bada all'orologio. Si è assueatti al gioco. Una volta un mio collega di facoltà, grande promessa non mantenuta, mi raccontava che la sua via era scandita da i ritmi delle sue partite: si alzava al matino, accendeva la play per caricare il suo gioco di calcio (PES appunto) si faceva un caffè per rendere al meglio e così andava avanti mattinate e pomeriggi interi. lo diceva divertito e io lo ascoltavo divertito anche se non comprendevo bene cosa significasse.
In alcuni casi il gioco entra nella testa peggio di un cattivo pensiero. Non da nemmeno i secondi del buon risveglio precedenti all'avvento del cattivo pensiero, come quelli vissuti da don Abbondio prima di rammemorare l'incontro dei bravi. Si pensa subito ad esso, alle immagini che esso ha prodotto nella mente. La potenza di queste immagini è nel fatto che esse sono virtuali ma fotemente dinamiche e realistiche e in più prodotte dall'attività stessa del soggetto, dal suo muovere qui o lì il protagonista o la palla o l'inquadratura.
 
Oggi ho potuto comprendere quello che quache anno fa mi era oscuro circa la vita assuefatta al gioco da joipad e non sono per nulla divertito.3/03/08

Borghesia illuminata a risparmio energetico: la trappola di Repubblica

Ho letto l'articolo di Repubblica ed ho provato subito un po' di disagio al pensiero di stare provando le stesse sensazioni che probabilmente avrebbero provato buona parte dei tranesi. Gradualmente sono andato convincendomi che così non sarebbe stato, che alla rabbia sopraggiungeva la nausea; capirete perchè.


Ci sarebbe molto da dire e molto su cui discutere: sull'immagine di Trani decadente, sui giochi, sull'apparente campanilismo dietro il lamentarsi di investimenti "stranieri", sul confronto tra gli intervistati barlettani e quelli tranesi. Ma alcune cose in particolari meritano di essere evidenziate. Ecco.  


Frasi ovvie, banali, grottesche, unte d'olio di un pranzo "squisito", menù di mare immagino, e immagino i volti intorno a quel tavolo, compiaciuti e pingui,  di chi per mestiere fa il giornalista di uno dei massimi giornali italiani e di chi per mestiere non so bene cosa faccia, ma che di certo è rappresentante illustre della borghesia illuminata e snob, roba da "porcaccioni" direbbe un filosofo francese. Un'immagine che avrebbe ispirato certamente il nostro Luigi Chiarelli.


Frasi al limite del demenziale quelle riportate dal giornalista, soprattutto alcune, cariche d'eccesso grottesco, anche questo tranesissimo ma non chiarelliano, come l'immagine antonioniana della cattedrale che salta in aria (Trani blowing up!) , come se ciò bastasse a squotere i tranesi; una provocazione scrive il giornalista. Una cazzata penso io, che però non sono nessuno. Una cazzata forse dettata dall'emozione di stare parlando con qualcuno che poi quelle frasi le avrebbe fatte leggere a mezz'Italia, uno importante insomma, davanti al quale è bisogna fare vedere di essere bravi anche con le frasi ad effetto, di non meritare il purgatorio della periferia se non per libera scelta. Come resistere quindi alla tentazione di rendere noti a tutt'Italia quei sentimenti di   comoda  insoddisfazione   in cui così beatamente si crogiolano alcuni tranesi? Tentativo miseabile ma dal gusto esotico, paesano, caratteristico come le reti a riposare sulle banchine.


Eppure se ci pensate quelle frasi hanno, forse non solo apparentemente, un forte contenuto di verità, inconsapevole e potente come quello delle opere d'arte: chi non le ha mai pensate? e soprattutto, chi le potrebbe smentire? anche Tarantini non ha saputo fare di meglio che salvaguardare l'immagine di Trani "bacchettando" Repubblica. Ma nelle sue parole non si smentisce alcunché; al massimo si giudica, giustamente, un comportamento inopportuno e pressapochista da parte di alcuni suoi concittadini e di un giornalista che è venuto qui in gita, ha passato delle belle ore, ha mangiato "divinamente" e poi ha utilizzato lo sfogo personale degli illustri interlocutori per avvalorare una tesi che quel gornale porta avanti da anni: l'inutilità dell'istituzione della nuova provincia. E loro ci sono cascati, distratti probabilmente dal desiderio di togliersi qualche sassolino fastidioso, a salvaguardia del confort naturalmente, e spinti dalla volontà di trovare una buona eco nazionale ad alcuni pensieri sicuramente ritenuti intelligenti e degni di essere resi ad un più vasto pubblico. Sicuramente c'era da spettarsi di meglio.  


Ad ogni modo sono portato a pensare che i tranesi siano sostanzialmente d'accordo con l'immagine che ha preso forma da quel banchetto, o comunque ci si rivedono non poco. D'altro canto a fornirla è un gruppo di tranesi, di buona cultura, ben radicati, che il paradigma della tranesità lo hanno assunto e metabolizzato fino a farne uscire quanto di meglio: una critica alla Trani dei tranesi fatta alla maniera dei tranesi. Il senso è lo stesso, sia se il discorso lo si fa su Repubblica o in Piazza della Repubblica. Adesso però ne discutiamo, ne parliamo e citiamo indotti da "autorità". In fin dei conti un pur piccolo merito doveva pure averlo quell'intervista.

Quello di Duchamp non è un pisciatoio; tra arte mentale e filosofia tecnica.


"Una questione privata", di quelle che non sai se pensarci su a penna o con la tastiera.
"Una questione di qualità", magari si ma...
Dicembre scorso, seguivo un corso di Filosofia della scienza che in realtà poteva benissimo essere uno di Ingegneria elettronica o che so io. Il professore azzarda, dice che Wittgenstein è il filosofo più sopravvalutato del novecento (ah! il novecento!). E poi si lancia in considerazioni aleatorie sulla storia dell'arte: Bach è il migliore, e dire che era pagato dallo Stato come un normale dipendente e, per di più, produceva a ritmi fordiani! Mozart, eh, Beethoven, hi, e poi {...} Duchamp, un pisciatoio ai vertici della produzione artistica del novecento: inammissibile. Spostamento estemporaneo, concettuale. 
{...}
Dovrebbe spiazzare ma gli studenti sono ben piazzati ammutoliti, ammansiti, ammiccanti. Sorrisi qua e la; io ben piazzato mi spiazzo, agorafobico per vezzo, e di necessità faccio virtù.
Azzardo: ma quello di Duchamp non era un pisciatoio! Cade la prima: energico tentativo neutralizzato da una prevedibele restistenza alla seconda legge della termodinamica. Lo stato rimane ordinato. Intanto il pisciatoio fa breccia in qualche cuore ritardatario; adesso anche i meno avvezzi alle faccende dell'arte ricordano quella pagina in cui nell'ultimo volume del manuale di storia dell'arte, agognata ora d'aria delle superiori, campeggiava una foto strana, inattesa e curiosa, di un pisciatoio. Sorrisi ebeti, tipici alle battute dei docenti; rimango basito.
Irrigidico i reni: ma quello di Duchamp non era (ho la loro attenzione, rallento) un pisciatoio... Il professore replica veloce e per nulla sorpreso che non era sua intenzione aprire questioni di nessun tipo sull'arte, materia che nn è di sua competenza, aggiunge. Scongiurata ancora la possibilità che aumenti il livello d'entropia, si torna a parlare dei "frame" e delle procedure di riconoscimento degli oggetti "del mondo" da parte di un robot programmato a rispondere a degli impulsi che provengono dall'esterno. Sospiro con un tono autoreferenziale di inutile superiorità spirituale: un robot piscerebbe sul ventre della propia madre.* E siccome non mi basto mai aggiungo: magari lo farei anch'io!*
Dev'essere opera assai ardua per certi cervelli da filosofia analitica comprendere la svolta mentalista del DADA[DA]. E non solo purtroppo, e qui penso all'assessore Sgarbi.
Dalla supremazia dell'oggetto a quella del concetto. Dall'arte retinale a quella concettuale. Ed è ovvio che l'arte dadaista, sberleffo alle modalità di fruizione del'opera borghese (più Simon Wilson che Theodor Adorno), venga apprezzata come un ghigno, una smorfia, una stortura.  
L'arte come fatto mentale.
La filosofia come sapere tecnico, o meglio, al servizio della tecnica.
"Una formalità".
 
Appendice.
C'è uno scultore californiano, tale Clark Sorensen, che si sta facendo una barca di soldi vendendo pisciatoi d'artista, pisciatoi fatti ad arte, opere d'arte da fruizione estetica borghese, giusto per ripredere quanto detto sopra. Qui a lato, nella sezione foto, ho riportato un paio di suoi pisciatoi, e dopo l'opera di Duchamp. Forse nelle immagini è meglio espresso cio che ho cercato di dire.
 
 
 
*Il riferimento è alla scritta R. Mutt, apposta da Duchamp sull'orinatoio in questione, che racchiude la chiave di lettura dell’opera. Anteponendo il cognome all’iniziale del nome R abbiamo la parola Mutter, madre in tedesco. La forma dell’orinatoio ricorda, infatti, la forma di un bacino femminile.
*Il riferimento qui è a uno stato di demenza che mi prende quando mi rendo conto di essere attore principale, critico e pubblico delle mie performance da fuori quota.

Roma, ovvero: te metto un dito 'n culo te strozzo.

Qualche mese fa non ci avrei neppure pensato. E devo aggiungere che è qualche mese che mi sono deciso a lasciare Trani per trasferirmi qui. E' capitato tutto così velocemente che se dovessi cercare di ripercorrere i passi delle settimane, dei giorni precedenti il mio trasferimento qui non saprei cosa e come raccontarli; o quasi. Ma non è questo che mi interessa ora.
Ho trovato casa nel XX Municipio, il Quadraro, un quartiere che mi dicono sia nato negli anni sessanta per far fronte alla crescente richiesta di case dovuta al boom economino, e si vede. Manco a dirlo, un quartiere di immigrati, di ogni dove, italiani e non; ma un quartiere borghese, tranquillo, niente a che vedere con le immagini elle perferie romane che qualche tempo fa giravano in tv. Qualche giorno dopo il mio arrivo a Roma una golf bianca con il bagagliaio aperto da cui uscivano collegate a dei cavi due vecchie e un vecchio stornello in romanesco che invitava pugliesi, calabresi, umbri, siculi e piemontesi ad unirsi ai romani, che "più siamo e meglio stiamo". Non so se fosse stato tutto organizzato dal comitato del quartiere per darmi il bevenuto. Ma non sempre buongiorno si vede dal mattino.
  Non conoscevo nessuno e non avevo lo spirito per approcciarmi a nessuno. I ritmi mi sfiancavano, mezzi, tram-metro-bus, scale mobili e non, passi e tempi che non decidi, odori acri di sudore stantio mai sentiti prima varianti al variare del clima, della pressione atmosferica, dell'umidità o che so io,  Roma vista perloppiù sottoterra, fermata metro per fermata metro, e i pochi giri per la città che mi facevo mi facevano sentire un turista sfigato; credetemi, al mattino a vedermi allo specchio mi facevo antipatia da solo.
Poi, come quasi sempre capita, le cose sono cambiate. La partita della Roma, quella con lo Sporting Lisbona (due a uno e gollazzo decisivo di Vucinic), vista in una bettola qui sotto casa, è stata il primo passo per la mia romana renaissance. Non l'università, gli incontri, la città nelle sue apparizioni fuori dalla metro, ma il mio primo vero incontro con i romani e con la Roma dei romani de Roma. Ho riso tutto il primo tempo come un deficente; ho sentito tutto il meglio del repertorio di alcuni quarantenni e cinquanteni e ultrasessantenni (una decina in tutto) che, probabilmente ringalluzziti dalla presenza di uno palesemente non romano ma convintamente romanista, hanno sfoggiato il meglio. Il secondo tempo è stato ancora più spassoso perchè al mio tavolo si era aggiunto un ragazzo del Bangladesh, Munnha, che di romano non ci capiva un cazzo ma che rideva come un forsennato, probabilmente per stare allegro; era solo, peggio, troppo peggio di me.
Di li in poi, forse per coincidenza, forse per aver superato per la prima volta l'ostacolo della solitudine, è andato tutto in discesa.
 Le cose si succedono in maniera strana, e troppo spesso non ci si rende conto che le situazioni che viviamo le determiniamo noi stessi, con il nostro sguardo su di esse, con il nostro ateggiamento; solo da noi stessi. Attribuire la responsabilità a terzi è da vigliacchi, oltre che controproducente. Mi spiego. Il giorno seguente, o poco dopo, sono uscito di primo mattino per andare a comprarmi un giornale. Cosa mai fatta prima, e non so perchè l'abbia fatto. Preso il giornale decisi di farmi un giro per il quartiere. L'ho visto rosso e giallo, i colori dell'autunno, resi chiari da un sole quasi primaverile. Ho visto i fruttaroli, i "pizzicagnoli", le attività di tutti i giorni di un posto come un'altro. Forse non potete immaginare come quelle immagini mi abbiano colpito, come se non le avessi mai viste,  come se fossi in un pianeta sconosciuto e indifferente. Forse non potete immaginare come ci si possa abituare al consueto senza rendersi conto che il consueto emana luce nuova ad ogni sguardo nuovo, di sbieco. Era come se la vita rinascesse dopo che erano cadute le parentesi della mia indifferenza.
E c'è di più: mi sono accorto di una strana tendenza che mi aveva colpito e che mi portava a vedere le cose in maniera del tutto forviante. Roma ad un mese che ci abitavo era già diventata una prigione. Ogni cosa mi era insofferente, la gente, gli accenti, i colori delle facce, i passamano della metro. Roma dopo quella sera in trattoria era diventata come la mia città, quella che in realtà non ho mai avuto (non ponete troppo l'accento su questa frase ma leggetela con gli occhi di uno che si trovava davanti qualcosa di bello dopo più di un mese di brutte sensazioni, perloppiù autoindotte). Mi sono sentito a casa senza conoscene l'ubicazione, la toponomastica, i negozi, le facce, le voci. Non so come spiegarlo meglio, non ho mai avuto sensazioni analoghe nelle città in cui ho abitato fino ad adesso, in cui mi sono sentito sempre un po' alieno, un po' fuori luogo. Qui no, qui ero e sono a casa.  
Caminando per il quartiere, salendo per viale Opita Oppio, via Cartagine e via Selinunte ho potuto notare tra una chiesetta di mattoni e un campetto di calcio, uno spiazzo verde; era proprio verde di erba. Avvicinandomi e girando attorno la chiesetta mi sono trovato difronte una campagna a perdita d'occhio da cui spuntavano, enormi, le rovine dell'acquedotto di Claudio. Folgorato. Il marrone della struttura imponente sul verde vivido del prato e un cielo chiaro come quello estivo e un profumo di terra umida e quella sensazione di casa che si rinnovava ancora più forte. Folgorato. Mi sono seduto sull'erba umidiccia, e ci sono stato il tempo di un paio di sigarette, lente,  le migliori, le più godute, le meno metropolitane delle centinaia fumate in cattività fino ad allora. Non avrei mai pensato di trovare tanta bellezza  a pochi passi da casa mia, intorno a me, e così forte e lieve da penetrare tanto a fondo nella mia esperienza romana. Folgorato.
Sono tornato a casa verso le nove, completamente rinnovato. La fortuna ha voluto che quella sensazione di rinnovamento me la porti dietro fino ad oggi, una continuità insolita per me a pensarci, sempre troppo volubile. Di li in poi, da questi due eventi vicinissii nel tempo, le cose sono andate in discesa. Le mie passeggiate per la Roma dei Fori Imperiali, delle Chiese, dei Musei, del passeggiare fine a se stesso, dei pomeriggi di domenica, portano dietro il ricordo di sensazioni uniche come solo questa città ti sa dare. E i nomi delle strade, che rimangono impressi anche ad uno che ad impararli ci è poco avvezzo come me. E posso anche non passeggiare da solo considerato il fatto che la mia rubrica in poco tempo si è allargata di molto. Ma a volte, chi mi conosce lo sa, preferisco.
 
Ps, la frase al titolo è ovviamente una delle tante sentite la sea di Roma-Sporting (2-1, gollazzo di Vucinic, ricordo). Non è la migliore, ma una delle più ripetute da un signore distinto e una delle più riportabili considerando chi andrà a leggerla.
 
 

ab ovo

Raccoglierò qui un po' di cose scritte altrove e in diversi momenti ma con lo stesso intento e lo stesso spirito. Pensieri in libertà e come ogni libertà non può essere tale se non vigilata a patto che non ci si voglia illudere. Dopodichè continuerò a scriverci di tanto in tanto quando qualcosa passerà all'interno del mio campo percettivo e catturerà la mia pigra attenzione. Considero questo blog un gioco e vorrei che chi si approcciasse giocasse un po' con me per poi proseguire per la propria strada senza che gli rimanga nulla in testa. Non prendete niente con troppa serietà ma nemmeno troppo alla leggera. Mi sembra una buona prospettiva attraverso cui guardare le cose anche nella vita di tutti i giorni. 
Non è mio obiettivo formare, informare, criticare, costruire o ammiccare a nessuno. Non sono mai stato bravo a farlo e di cominciare ora proprio non ne ho voglia. 
Buona lettura.